Un New Deal per il lavoro - micromega-online - micromega
di Luciano
Gallino, da Repubblica, 22 gennaio 2012
Ci sono due
strade per creare occupazione. Una è quella delle politiche fiscali: lo Stato
riduce le tasse alle imprese per incentivarle ad assumere. L'altra vede lo
Stato creare direttamente posti di lavoro. Rientrano palesemente nella prima le
misure predisposte dal governo che sono entrate in vigore a gennaio.La più
rilevante sta nell'articolo 2: prevede, per le imprese che assumono a tempo
indeterminato giovani sotto i 35 anni, una deduzione Irap di 10.600 euro per
ogni neo assunto, aumentata della metà per le imprese del Meridione.
C'è una
obiezione di fondo alle misure del governo: le politiche fiscali presentano una
serie di inconvenienti che ne limitano molto la capacità di creare occupazione.
Anzitutto esse offrono incentivi a pioggia, ossia non distinguono tra i settori
di attività economica in cui appare più utile creare occupazione. Un nuovo
assunto è un disoccupato in meno, però sarebbe meglio per l'economia se l'assunzione
riguardasse un centro di ricerca invece che un fast food, scelta che non si può
fare con incentivi del genere. In secondo luogo bisognerà vedere se le imprese
aumentano realmente il personale grazie alle assunzioni incentivate dagli
sgravi fiscali, oppure se ne approfittano licenziando appena possono un numero
ancora maggiore di quarantenni. Infine le politiche fiscali hanno un effetto
incerto. Un'impresa che sa di fruire entro l'anno fiscale di uno sgravio di
imposta per ogni assunzione non è detto si precipiti ad assumere tot operai o
impiegati il 2 gennaio. È possibile che aspetti di vedere come andranno i
futuri ordinativi, i crediti che ha richiesto, i pagamenti dei clienti in
ritardo di un anno; con il risultato che, ove decida di assumere, lo fa magari
a novembre. Uno sfasamento troppo lungo a fronte di 7 milioni di disoccupati e
male occupati in attesa.
Veniamo alla
seconda strada. Dagli Usa provengono due casi che attestano, da un lato, la
scarsa efficacia delle politiche fiscali per creare occupazione; dall'altro, il
ritorno dell'idea che il modo migliore per farlo consiste nel creare
direttamente posti di lavoro. A febbraio 2009 il governo Obama varò una legge
sulla ripresa (acronimo Arra) comprendente un pacchetto di 787 miliardi di
dollari tra riduzione di imposte, prestiti e facilitazioni di vario genere.
Secondo uno studio di due consiglieri del presidente, grazie a tale intervento
si sarebbe evitato che la perdita di posti di lavoro toccasse i 5 milioni,
mentre entro fine 2010 se ne sarebbero creati 3.675.000 di nuovi. E la
disoccupazione avrebbe toccato al massimo l'8% a metà 2009 per scendere presto
al 7. In realtà i posti di lavoro persi dopo l'entrata in vigore della legge
hanno superato gli 8 milioni, quelli creati ex novo erano soltanto un milione e
mezzo a metà 2011 e il tasso di disoccupazione ha toccato il 10%.
Forse scottato dall'insuccesso di Arra, a ottobre 2011 il presidente Obama ha presentato al Congresso un altro piano in cui le politiche fiscali hanno ancora un certo peso, però accanto ad esse propone lo stanziamento di 140 miliardi di dollari per mantenere in servizio 280.000 insegnanti; modernizzare oltre 35.000 scuole; effettuare investimenti immediati per riattare strade, ferrovie, trasporti locali e aeroporti e ridare così un lavoro a centinaia di migliaia di operai delle costruzioni. In sostanza, il governo Usa ha deciso di puntare meno sui tagli di tasse e assai più su interventi diretti “per creare posti di lavoro adesso” (così dice la copertina del piano). È un passo significativo verso un recupero da parte dello Stato del ruolo di datore di lavoro di ultima istanza, quello che durante il New Deal creò in pochi mesi milioni di posti di lavoro.
Uno Stato che voglia oggi rivestire tale ruolo assume il maggior numero possibile di disoccupati a un salario vicino a quello medio (intorno ai 15.000 euro lordi l'anno), e li destina a settori di urgente utilità pubblica; tali, altresì, da comportare un'alta intensità di lavoro. Quindi niente grandi opere, bensì gran numero di opere piccole e medie. Tra i settori che in Italia presentano dette caratteristiche si possono collocare in prima fila il riassetto idrogeologico, la ristrutturazione delle scuole che violano le norme di sicurezza (la metà), la ricostruzione degli ospedali obsoleti (forse il 60%). Significa questo che lo Stato dovrebbe mettersi a fare l'idraulico o il muratore, come un tempo fece panettoni e conserve? Certo che no. Lo Stato dovrebbe semplicemente istituire un'Agenzia per l'occupazione, che determina i criteri di assunzione e il sistema di pagamento. Dopodiché questa si mette in contatto con enti territoriali, servizi per l'impiego, organizzazioni del volontariato, che provvedono localmente alle pratiche di assunzione delle persone interessate e le avvìano al lavoro. È probabile che non vi sarebbero difficoltà eccessive a farlo, visto le tante Pmi, cooperative e aziende pubbliche, aventi competenze idonee in uno dei settori indicati, le quali potrebbero aver interesse a impiegare stabilmente personale il cui costo è sopportato per la maggior parte dallo Stato.
La domanda cruciale è come finanzia le assunzioni il datore di lavoro di ultima istanza. Si può tentare qualche indicazione, partendo da una cifra-obiettivo: un milione di assunzioni (di disoccupati) entro pochi mesi. A 15.000 euro l'uno, la spesa sarebbe (a parte il problema di tasse e contributi) di 15 miliardi l'anno. Le fonti potrebbero essere molteplici. Si va dalla soppressione delle spese del bilancio statale che a paragone di quelle necessarie appaiono inutili, a una piccola patrimoniale di scopo; dal contributo delle aziende coinvolte, che potrebbero trovare allettante l'idea di pagare, supponiamo, un terzo della spesa pro capite, a una riforma degli ammortizzatori sociali fondata sull'idea che, in presenza di lunghi periodi di cassa integrazione, proponga agli interessati la libera scelta tra 750 euro al mese o meno per stare a casa, e 1.200 per svolgere un lavoro decente. Altri contributi potrebbero venire da enti territoriali e ministeri interessati dalle attività di ristrutturazione di numerosi spazi e beni pubblici. Non va infine trascurato che disoccupazione e sotto-occupazione sottraggono all'economia decine di miliardi l'anno. John M. Keynes – al quale risale l'idea di un simile intervento – diceva che l'essenziale per un governo è decidere quali scelte vuol fare; poi, aguzzando l’ingegno, i mezzi li trova.
Forse scottato dall'insuccesso di Arra, a ottobre 2011 il presidente Obama ha presentato al Congresso un altro piano in cui le politiche fiscali hanno ancora un certo peso, però accanto ad esse propone lo stanziamento di 140 miliardi di dollari per mantenere in servizio 280.000 insegnanti; modernizzare oltre 35.000 scuole; effettuare investimenti immediati per riattare strade, ferrovie, trasporti locali e aeroporti e ridare così un lavoro a centinaia di migliaia di operai delle costruzioni. In sostanza, il governo Usa ha deciso di puntare meno sui tagli di tasse e assai più su interventi diretti “per creare posti di lavoro adesso” (così dice la copertina del piano). È un passo significativo verso un recupero da parte dello Stato del ruolo di datore di lavoro di ultima istanza, quello che durante il New Deal creò in pochi mesi milioni di posti di lavoro.
Uno Stato che voglia oggi rivestire tale ruolo assume il maggior numero possibile di disoccupati a un salario vicino a quello medio (intorno ai 15.000 euro lordi l'anno), e li destina a settori di urgente utilità pubblica; tali, altresì, da comportare un'alta intensità di lavoro. Quindi niente grandi opere, bensì gran numero di opere piccole e medie. Tra i settori che in Italia presentano dette caratteristiche si possono collocare in prima fila il riassetto idrogeologico, la ristrutturazione delle scuole che violano le norme di sicurezza (la metà), la ricostruzione degli ospedali obsoleti (forse il 60%). Significa questo che lo Stato dovrebbe mettersi a fare l'idraulico o il muratore, come un tempo fece panettoni e conserve? Certo che no. Lo Stato dovrebbe semplicemente istituire un'Agenzia per l'occupazione, che determina i criteri di assunzione e il sistema di pagamento. Dopodiché questa si mette in contatto con enti territoriali, servizi per l'impiego, organizzazioni del volontariato, che provvedono localmente alle pratiche di assunzione delle persone interessate e le avvìano al lavoro. È probabile che non vi sarebbero difficoltà eccessive a farlo, visto le tante Pmi, cooperative e aziende pubbliche, aventi competenze idonee in uno dei settori indicati, le quali potrebbero aver interesse a impiegare stabilmente personale il cui costo è sopportato per la maggior parte dallo Stato.
La domanda cruciale è come finanzia le assunzioni il datore di lavoro di ultima istanza. Si può tentare qualche indicazione, partendo da una cifra-obiettivo: un milione di assunzioni (di disoccupati) entro pochi mesi. A 15.000 euro l'uno, la spesa sarebbe (a parte il problema di tasse e contributi) di 15 miliardi l'anno. Le fonti potrebbero essere molteplici. Si va dalla soppressione delle spese del bilancio statale che a paragone di quelle necessarie appaiono inutili, a una piccola patrimoniale di scopo; dal contributo delle aziende coinvolte, che potrebbero trovare allettante l'idea di pagare, supponiamo, un terzo della spesa pro capite, a una riforma degli ammortizzatori sociali fondata sull'idea che, in presenza di lunghi periodi di cassa integrazione, proponga agli interessati la libera scelta tra 750 euro al mese o meno per stare a casa, e 1.200 per svolgere un lavoro decente. Altri contributi potrebbero venire da enti territoriali e ministeri interessati dalle attività di ristrutturazione di numerosi spazi e beni pubblici. Non va infine trascurato che disoccupazione e sotto-occupazione sottraggono all'economia decine di miliardi l'anno. John M. Keynes – al quale risale l'idea di un simile intervento – diceva che l'essenziale per un governo è decidere quali scelte vuol fare; poi, aguzzando l’ingegno, i mezzi li trova.
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